Una vita usa e getta

Una vita usa e getta

Umberto Galimberti ha definito il consumismo come un nuovo vizio che crea una mentalità tanto nichilista da farci pensare che solo assumendo ad ampio spettro il principio del consumo degli oggetti, potremo garantirci identità, stato sociale, libertà e benessere. Dal momento che la produzione non tollera interruzioni, le merci devono essere consumate e quando, per loro natura, non si usurano ci pensa la pubblicità a farle diventare obsolete o socialmente inaccettabili. Quindi da sostituire. Questo principio è fortemente sentito dagli adolescenti che hanno bisogno di essere sempre “giusti”. Gli effetti di questa cultura si misurano in maniera consistente nella costruzione e nel mantenimento dell’identità personale.

Le persone, inserite in un contesto dove non esiste nulla di durevole, perdono i punti di riferimento per la loro identità, la continuità della loro vita psichica. Questo vale anche per le relazioni interpersonali, che diventano soggette alla legge dell’usa e getta. Di fatto se l’adulto si caratterizza per instabilità e insicurezza, la questione si amplifica a dismisura per gli adolescenti, che già vivono in modo fisiologico queste due variabili. In altre parole un ragazzo, già di per sé incerto sulla propria identità, si trova immerso in un mondo adulto che, anziché fornirgli sicurezze, conferma e aumenta la sua confusione.
Gli oggetti hanno un ruolo importante nella costruzione identitaria. Ad esempio, l’omologazione al gruppo dei pari passa spesso attraverso il possesso di oggetti, uguali tra loro, che testimoniano l’appartenenza del ragazzo proprio a quel gruppo. Per questo un genitore deve valutare attentamente le richieste che gli sottopone un figlio. Invece di adottare una strategia di risposta immediata, – sì oppure no – sarebbe più funzionale una modalità interlocutoria in cui il genitore, con un giudizio sospeso e un approccio rispettoso, attraverso domande esplorative va alla ricerca del significato di quella richiesta.

Questo consente una maggiore conoscenza del mondo interno del figlio, di ciò che pensa, di che idea ha del mondo, di sé e dei propri amici, oltre che la possibilità di prendere una decisione più efficace sul piano educativo. Spesso comperare cose ai figli diventa, inconsapevolmente, un gesto riparativo rispetto al poco tempo che i genitori passano con loro. C’è un rischio in questo: impedire ai ragazzi di sperimentare il desiderio. Se per un neonato è bene che il genitore anticipi i suoi bisogni, a un ragazzino occorre un tempo in cui non vede soddisfatta una richiesta.
Questo è il tempo del desiderio che dà valore alle cose e non ne permette un consumo vorace, che lascia insoddisfatti e nuovamente bisognosi. Il consumo non implica passione, ma solo interesse momentaneo. Inoltre contempla la volubilità, quel che piace ora, tra un momento non aggrada più e c’è bisogno di consumare qualcosa d’altro. Un altro aspetto riguarda la gestione delle risorse e il senso del limite che i genitori hanno la necessità di trasmettere ai figli.

L’idea che tutto si può avere è pericolosa, poiché illusoria. Anche per chi gode di possibilità elevate in termini di denaro deve esistere un limite, pena la condanna a consumare senza mai avere una piena soddisfazione delle cose. La paghetta rappresenta un modo per aiutare i ragazzi a essere responsabili, imparare a fare scelte e a gestire le proprie risorse, tenendo a bada i bisogni impulsivi. La somma va concordata, attraverso un esame  di realtà effettuato da genitori e figli.
Occorre poi lasciare ai figli la libertà di gestire quel denaro come vogliono aiutandoli così a fare un’esperienza di crescita verso un’autonomia adulta e responsabile. Il rischio infatti del consumismo non è una deviazione della  personalità, ma addirittura del dissolvimento della personalità stessa, che rischia di rimanere in balia dei bisogni immediati e fugaci. Uno stile sobrio e moderato rappresenta un ottimo antidoto contro questo grave rischio.

Quando la punizione diventa vendetta

Quando la punizione diventa vendetta

“Volevo solo educarlo, non fargli del male, fargli capire che i morsi fanno male”. Questa la giustificazione addotta da una mamma dopo avere morso un bimbo di  due anni a mezzo. Che i bambini possano mettere a dura prova la pazienza degli adulti è un dato di fatto ma, cosa vi può essere di educativo in un morso? Gesto squisitamente spontaneo e istintivo, mero figlio della rabbia, ai nostri occhi acquista soltanto i contorni della vendetta, non certo della punizione.  Proviamo a  capire la giusta modalità con la quale l’adulto educante deve gestire la rabbia e i sentimenti negativi del bambino.

In ambito educativo  non vale il detto: rendere pan per focaccia.

Vorrei subito sottolineare che trattandosi di un bambino molto piccolo, non possiamo pretendere che questi capisca l’entità di un suo errore o di un atteggiamento sbagliato. Allo stesso tempo, mordere è un comportamento spontaneo che un adulto non dovrebbe mettere in atto, avendo a  disposizione altre modalità, decisamente più simboliche, per gestire il conflitto. Alla scuola d’infanzia, ad esempio, esiste quella che viene definita la seggiolina del pensiero, ovvero uno strumento che consente al bambino di sedersi, fermarsi, pensare e capire che un certo comportamento non va bene. Anche a casa possiamo inventare uno strumento che aiuti il bambino a calmarsi e riflettere. Un genitore che morde non insegna al piccolo che quell’atto non deve ripetersi ma, al contrario, lo acutizza.

 La molla che può far scattare in un adulto un comportamento di questo tipo

Quando un adulto si sente in difficoltà rispetto a un bambino possono scattare in lui delle reazioni dettate dall’esasperazione, dall’incapacità del momento di riuscire ad educare il piccolo.

I meccanismi possibili  da mettere in atto per non farsi sopraffare dall’istinto, dalla rabbia o dalla frustrazione

“Occorre essere e apparire solidi. Non dobbiamo farci spaventare dai bambini, dai loro attacchi di rabbia. Spesso l’errore è proprio quello di non accettare il fatto che anche i piccoli possano provare sentimenti negativi. Non dobbiamo mai inibire le emozioni dei bambini, al contrario dovremmo spiegare loro che possono esprimerle in un altro modo. Dall’agito al simbolico, insomma. I sentimenti non devono essere repressi, ma accettati compresi, tenuti e canalizzati ad esempio attraverso comportamenti più adeguati.  Ad esempio possiamo costruire la scatola della rabbia, il cuscino dei pugni… I bambini, di fronte al senso di impotenza e di inadeguatezza degli adulti, li mettono alla prova, ma non dimentichiamo mai che dietro l’atteggiamento rabbioso di un bimbo vi è una perdita di controllo che comporta in loro un grande dolore. Non limitiamoci ad osservare e a registrare soltanto l’aggressività, cerchiamo di cogliere anche lo stato di malessere che vi si cela”.

Tutti viviamo situazioni personali complesse che possono ripercuotersi sulla qualità del nostro agire. Le nostre difficoltà possono incidere in una relazione educativa

Molto dipende dalla personalità di ciascuno ma i bimbi riescono sempre a sollecitare l’emotività degli adulti. Se una persona vive un momento di difficoltà e non è consapevole del proprio precario equilibrio, il rischio di perdere le staffe diventa alto. I bambini avvertono immediatamente il disagio dell’adulto e ciò li fa sentire insicuri, incapaci di fidarsi, pieni di paura e, paradossalmente, provocano. Un lavoro di relazione con i bambini espone rispetto alle proprie difficoltà. Questa mamma, che non mi sentirei comunque di condannare, evidentemente pensava di riuscire a gestire le proprie emozioni più di quanto sia poi riuscita a fare.

Qual è la giusta punizione?

E’ indispensabile creare una relazione all’insegna della reciprocità umana ma mantenere al contempo la simmetria educativa. L’educatore non deve chiedere a un bambino le prestazioni di un adulto. Un pacca sul sedere, un morso… non sono

punizioni, bensì piccole vendette, frutto dell’esasperazione, che non hanno alcun valore educativo. La punizione ha una valenza positiva soltanto quando aiuta il bimbo a capire che ogni cosa ha una conseguenza. Non sei stato bravo? Allora non andiamo al parco… senza rabbia, con tranquillità, solidità. Reagire con violenza dà al bambino la consapevolezza di essere il più forte, di possedere la capacità di far perdere le staffe all’adulto.

In realtà ciò che è importante è aiutare il bambino ad esprimere le proprie emozioni attraverso comportamenti più adeguati, tutte le emozioni sono legittime, i comportamenti vanno educati.

Mi aiuti a fare i compiti?

Mi aiuti a fare i compiti?

I compiti a casa,  davvero un affare di famiglia?

Oggi parliamo di collaborazione scuola e famiglia ed in particolare  ci soffermiamo sul  delicato tema dei compiti a casa dei bambini che frequentano la scuola primaria.
Su questo problema si intrecciano in molte famiglie discussioni, promesse e punizioni che rendono i pomeriggi piuttosto pesanti per grandi e piccini.
I compiti rappresentano, al di là della funzione didattica, per altro non universalmente condivisa, un impegno per i bambini e le bambine, un limite rispetto alla possibilità di gestire il  loro tempo come meglio credono.
In sostanza sono un dovere che deriva dalla loro condizione di essere studenti.
Un primo spunto di riflessione riguarda proprio questo:
i compiti sono un affare dei bambini e degli insegnanti e non dei genitori.

Questo per lo meno a livello teorico. Sul piano pratico, spesso invece succede che i compiti diventano un affare di famiglia, diventano un secondo lavoro per i genitori che si sentono pressati dalle richieste incrociate della scuola e dei figli.
Si assiste così ad una trasposizione dei doveri, non sono più i bambini ad avere la responsabilità dei compiti, ma sono le mamme ed i papà ad assumersi l’onere di farli fare ai figli.
Se i genitori “mollano” i compiti non sono fatti, o sono eseguiti male, con la conseguente condanna morale esplicitata dalla frase tipica “ dovreste seguire di più vostro figlio/a”.
In realtà ciò che occorre chiedere ad un genitore non è aiutare a studiare un bambino/a in senso stretto, ma più in generale aiutare i figli a stare dentro i limiti che le realtà quotidiana e scolastica impongono loro.
Il passaggio dal principio di piacere, che è uno stato fisiologico e legittimo di ciascun neonato, al principio di realtà è assolutamente necessario per garantire una crescita serena ed autonoma.
In altre parole somministrare ai bambini/e piccole frustrazioni li aiuta ad imparare a stare dentro il limite delle cose consente loro di non diventare persone schiave dei propri bisogni e con la necessità assoluta di soddisfarli immediatamente ( i bambini e gli adulti che non accettano, per nessuna ragione un no).
Questa capacità si acquisisce piano, piano nel tempo e passa attraverso i no dei genitori, indispensabili per aiutare un bambino a diventare grande e riuscire a fidarsi di sé.
Se sono schiavo dei miei bisogni non posso nemmeno fidarmi di me stesso.
Nello specifico dei compiti, il ruolo dei genitori non deve essere quello di sostituirsi allo studente o alla maestra, ma più semplicemente deve essere quello di aiutare a stare dentro i limiti e tollerare di fare degli sforzi per una soddisfazione che non è immediata.
“Mi dispiace, ma ora non puoi giocare, anche se so che ti piacerebbe. Devi fare i compiti. La soddisfazione non puoi averla ora, ma l’avrai domani quando la maestra verificherà il tuo lavoro”.
Questa convinzione, se fatta propria dai genitori, può rendere maggiormente credibile ed autorevole il dire al proprio figlio/a di fare i compiti.
In altre parole dobbiamo essere convinti di agire ciò che è giusto per loro. Non possiamo chiedere ad un bambino/a di rinunciare ragionevolmente ad andare a giocare, perché deve fare i compiti, ma dobbiamo pretendere da noi stessi di mantenere il nostro no e tollerare le sue lamentele e capricci, senza troppa rabbia, ma con una certa tranquillità.
Questo, a poco a poco, “addomestica” un bambino/a che piano piano impara a stare dentro al limite e diventa capace di procrastinare la soddisfazione di un bisogno.
Impara inoltre a sentire non solo il bisogno immediato ( ho voglia di giocare), ma anche a pregustare un piacere più lontano nel tempo ( un bel voto nella verifica del giorno dopo), che costituisce il solo modo per dare senso allo sforzo ed alla rinuncia del qui ed ora anche per gli adulti.

Genitori insieme anche dopo la separazione

Genitori insieme anche dopo la separazione

Alcuni spunti di riflessione sulla la possibilità di pensarsi come coppia genitoriale dopo la separazione.

Ecco alcuni passaggi che le mamme ed i papà separati devono compiere per poter continuare a agire una genitorialità  condivisa nei confronti dei loro figli.

La fiducia è stata scelta come parola chiave perché, con la separazione la fiducia subisce spesso un colpo duro e le persone passano attraverso  una fortissima delusione, soffrono, si assiste spesso ad una reciproca attribuzione di colpe .
Rimangono,  e, sono molto faticose da gestire, tendenze ambivalenti, cioè da un lato si dice : “Non mi fido più di te” ma dall’altro si sa bene che i figli  hanno bisogno di sentire l’alleanza dei genitori sulle cose che li riguardano.
Come si fa ad avere fiducia in un uomo  che si è rivelato un cattivo marito oppure in una donna che si giudica una cattiva moglie?
Occorre fare un percorso,  anche lungo, in  cui si attraversano della fasi (che possono durare mesi,  oppure anni) con emozioni e sentimenti diversi che incidono sulle possibilità, per i genitori, di ripristinare e mantenere tra loro quelle condizioni di fiducia, che permettano loro di essere una “piccola squadra” che accompagna la crescita dei propri figli.

All’inizio si parla di crollo della fiducia
Le  situazioni emotive che ostacolano un rapporto di fiducia  provengono dalla storia della coppia . Stare in coppia, che è l’espressione più completa del rapporto fra due persone, è un’esigenza primaria e irrinunciabile per moltissimi  esseri umani.
La separazione  è un’esperienza di  perdita , è un lutto anche se l’altra persona esiste ancora.
Si vive un senso di vuoto, di mancanza ,è una grande fatica fare senza di Lei / di Lui e
Spesso c’è anche tanta rabbia o senso di colpa, perché è molto complicato ricostruire la propria storia in modo tale da salvare  tutti i protagonisti, più facilmente si individuano dei colpevoli : è colpa sua  o mia, se avessi fatto …se avessi detto.. oppure  c’è la condanna a volte drastica e inappellabile.
La generalizzazione e l’esasperazione producono giudizi. Così si arriva a definire l’altro come un mostro oppure una strega.
Questo è il momento in cui si  cercano alleati , si organizzano crociate , si fanno coalizioni contro , perché si  pensa che per avere una rivalsa sull’altro bisogna sconfiggere e quindi ferire o addirittura distruggere.
Questa strategia è perdente per tutti, è una trappola da evitare perché  aumenta il dolore e la rabbia, porta frustrazione, prolunga lo stato di guerra e ostilità  anche per anni.
Dalla fase di guerra battagliata si può passare alla fase di “evitamento”, cioè del minor contatto possibile. Dapprima non si riesce nemmeno ad avvicinarsi all’altro, poi, con molta cautela, si fa qualche passo  ma senza rischiare di farsi male, perché non é facile stare accanto a colei che è vista come strega  o a colui che è considerato come  mostro. Più avanti ci possono essere  incontri  più ravvicinati, ma con riserva…” .Qui si tollera  la presenza dell’altro ma non lo si considera minimamente.( Ad esempio si va a vedere entrambi la partita del figlio, ma non ci si rivolge la parola….)
La quarta fase è quella del ‘pensarsi genitori insieme’  a decidere della festa di compleanno, della scuola, dello sport. E’ la fase in cui si parla insieme dei propri figli. Questa fase non é garantita , sono equilibri instabili, specie all’inizio, e  serve tempo per ottenere e stabilizzare qualche  risultato.
“E’ come se ci fosse da raggiungere un porto per trovare sicurezza in se stessi e ristabilire buone relazioni, ma il mare che si attraversa per raggiungerlo non è calmo e la propria imbarcazione è una navicella fragile.” Con la bussola ed una buona attenzione si può arrivare al porto Questo non significa che si debba dimenticare, piuttosto cercare di non tenere un conto aperto con l’altro, perchè renderebbe   difficile la ricerca della felicità per sé e per i propri figli.

I No che aiutano a diventare grandi

I No che aiutano a diventare grandi

Le regole come gesto d’amore

L’azione educativa comprende sia una dimensione affettiva che una dimensione etica. La prima di queste ha a che fare con il sentirsi amati incondizionatamente, esattamente per ciò che si è. In altre parole ti voglio bene proprio perché sei tu, nella tua individualità e unicità. Occorre uno sguardo di benevolenza e tenerezza che faccia sentire amato chi, da tale sguardo, viene attraversato. Spesso, in realtà, l’esperienza che viene fatta è quella di un amore “condizionato” ti voglio bene anche se mi fai arrabbiare, non vai bene a scuola, hai le orecchie a sventola, assomigli a tuo nonno/a, non sei come mi aspettavo che tu fossi. 

Questo tipo di amore, che anche molti adulti hanno sperimentato e sperimentano, fa sentire la persona che lo riceve sempre mancante di qualcosa, in difetto, e la rende incerta rispetto alla propria amabilità. Spesso i genitori non sono consapevoli di questo meccanismo, perché di fatto, amano moltissimo i propri figli, ma hanno come una sorta di riserva inconscia nei loro confronti. Questa situazione può portare un po’ di fatica nella relazione quotidiana. Da un lato bambini, inspiegabilmente, arrabbiati, lagnosi, distaccati, silenziosi, ansiosi o insicuri, dall’altro genitori in difficoltà, che non capiscono bene che succede, che non sanno cosa fare. Questi segnali all’apparenza incomprensibili, possono essere letti come la manifestazione di una fatica interna della relazione genitori-figli. Di fatto non basta amare i bambini, ma occorre anche dare loro delle regole, aiutarli, pian piano, a passare dal principio di piacere al principio di realtà, anche attraverso l’esperienza dei no. I no, appunto, che aiutano a crescere e a rendere le persone, adulti affidabili, capaci di prendersi cura di sé e degli altri. Che tipo di no occorre dire ai figli? Sarebbe importante poter somministrare dei no pensati, anziché dei no emotivi.

La differenza sta nel fatto che i no pensati hanno a che fare con ciò che è giusto per i figli e la loro crescita, i no emotivi hanno a che fare con ciò che ha turbato un genitore. Mi hai fatto arrabbiare e ti dico di no, mi hai ferito e ti dico di no, mi hai deluso e non ti accontento…questi sono i no emotivi, che tutti noi, qualche volta, abbiamo ricevuto e pronunciato. I no pensati, viceversa, sono quelli detti anche con molta fatica, senza rabbia, solo ed esclusivamente nell’interesse dei bambini. Viene fatto ciò che è giusto per loro e, in questo senso, per il loro bene. La dimensione etica viene agita dai genitori e trasmessa ai figli con azioni coerenti. Seguendo questo filo conduttore le punizioni diventano occasioni per riflettere e imparare che a tutte le azioni che noi possiamo fare corrispondono delle conseguenze, positive o negative, di cui dobbiamo imparare ad assumerci la responsabilità. Le punizioni sono efficaci quando non sono vendette o ripicche dei genitori, ma strumenti di ravvedimento rispetto a comportamenti che hanno provocato conseguenze negative per sé o per gli altri. Per questo le punizioni vanno pensate, vanno esplicitate e soprattutto mantenute, se i genitori vogliono avere una credibilità e una autorevolezza necessarie per aiutare i figli nel loro percorso di crescita.